Il cortometraggio nell’era delle piattaforme e il rapporto con la sala

In “Nimic” (che in rumeno significa “nulla”) un violoncellista professionista (Mat Dillon) non perde la “bussola”, ma “l’orologio”. Perde il tempo (fondamentale nelle esecuzioni) e va in crisi. Formula perfetta per un rompicapo: perché a sostituirlo nella sua vita, pubblica e privata, è proprio una sconosciuta (Dapnhé Pataki) con cui entra in contatto sul treno? E perché la sconosciuta è così incapace ma apprezzata nella quotidianità dalla famiglia dell’uomo? E l’uomo è a sua volta la copia sostitutiva di un’altra persona?

Sono molte, forse troppe le domande che lascia allo spettatore il corto distribuito in sala da Trent Film nel marzo 2024 ma datato 2019, di Yorgos Lanthimos, regista di Povere creature (Leone d’oro al miglior film all’80ª edizione della Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia e vincitore di quattro statuette all’ultima edizione degli Oscar). Sono così tante le domande senza risposta che anche l’attrice Daphné Patakia sul set ha affermato di essersi fatta guidare non comprendendo a pieno le scelte e le indicazioni del regista greco. Certo è che Lanthimos è sempre stato un fan della distopia sociale (“Dogtooth”, “The Lobster”, “Il sacrificio del cervo sacro”) e questa sua creazione rientra pienamente nel genere: un’alienazione contemporanea raccontata in maniera tanto breve e concisa (12 minuti piuttosto ritmati) quanto barocca (contrappone a lenti basiche da 35mm dei fish-eye esasperati) e glaciale e perturbante (nel contenuto e nella fotografia di Diego Garcia, già collaboratore di Apichatpong Weerasethakul).

Se “Nimic” abbia avuto successo o meno nelle sale non ci è dato saperlo, ma sorprende apprendere che un formato cinematografico quale il cortometraggio, spesso e volentieri bistrattato, desti interesse prima ancora che nel pubblico ai distributori.

Si sa, il cortometraggio è generalmente visto come il trampolino di lancio per un giovane autore (generalmente sconosciuto) in attesa di cimentarsi in un lungometraggio. Ma i tempi cambiano, e autori quali Roman Polanski, David Lynch, Martin Scorsese o lo stesso Lanthimos, che non sono proprio di primo pelo, hanno continuato a sperimentare questa forma nel corso degli anni, soprattutto mediante le pubblicità, che, sì, sono una forma di cortometraggio, come c’è chi potrebbe aggiungere che anche i Reels su Instagram o su Tiktok lo siano ormai, ma questo è un discorso che andrebbe affrontato a parte. “A Therapy” (2012) di Polanski per Prada o “The Audition” (2015) di Scorsese, per pubblicizzare un complesso di centri commerciali, hotel, casinò costato la follia di sessanta milioni di dollari, sono l’esempio di due corti che ai tempi ebbero piuttosto successo (Scorsese avrebbe dovuto presentarlo fuori concorso alla 72ª Edizione della Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia, salvo poi copia non pervenuta all’ultimo momento).

Ma la tendenza, soprattutto dal punto di vista esclusivamente narrativo, è da considerarsi in rialzo recentemente e proprio con l’esplodere delle piattaforme. “What did Jack do?” di David Lynch, rilasciato su Netflix nel 2018, ebbe una grande visibilità in streaming e fu molto discusso in rete, per esempio. Il 2022 invece fu l’anno di Alice Rohrwacher, la cui opera “Le pupille” – prodotta da Alfonso Cuaron – e candidata agli Oscar nella categoria miglior cortometraggio, fu oggetto di grandi recensioni a livello internazionale e distribuita unicamente su Disney+. È chiaro che lo streaming  abbia contribuito a diffondere, e a volte anche a produrre, alcuni corti (vedi il caso “Il mercante” by Netflix) e di conseguenza la sala cinematografica ha sentito la necessità di dover competere nuovamente con questi immensi e insidiosi spiazzi online. E, diciamolo chiaramente, a volte è veramente difficile, perchè Mubi, la piattaforma più affidabile e irresistibile da questo punta di vista, offre (oltre a film d’autore in lingua originale) un ricco catalogo di oltre cento corti provenienti da ogni parte del mondo, tra cui il capolavoro “Blank Narcissus (Passion of the Swamp)” di Peter Strickland.

Certo, in questo caso (“Nimic”) si può pensare che, per la distribuzione, la vittoria all’Academy abbia fatto il grosso, ma non dobbiamo dimenticare nell’ultimo anno l’arrivo nelle sale anche di: “La meravigliosa storia di Henry Sugar” di Wes Anderson, personaggio le cui idiosincrasie verso l’asimmetria sono ormai un meme del web; il bellissimo “A Strange Way of Life” di Pedro Almodovar; per non parlare delle vere e proprie rassegne che vengono dedicate ai giovani autori (anche italiani): Simone Bozzelli, esordiente nel lungometraggio con “Patagonia” al quale sono state dedicate le proiezioni di cinque suoi cortometraggi. Le piattaforme hanno incrementato l’accesso a forme di cinema sottovalutate ma sarebbe bello se a prendere in mano la situazione fossero i cinema.

Che il formato corto sia il futuro in un momento in cui i film-fiume sono sempre più gettonati dai registi? La risposta, scontata, sta nell’affluenza in sala e nelle scelte dei produttori. Il resto, purtroppo, é “nimic”.

 

Autore: Michele Zaffarano