SARA PERDE. La vittoria della sconfitta ed un linguaggio che ancora non ci appartiene

#OP

 

Usare con sapienza una miscela di codici che insieme sono il linguaggio cinematografico significa portare allo spettatore qualcosa che può essere veicolato solo e solamente con il cinema stesso. Non può essere raccontato, scritto, disegnato, cantato, o altro. Quel contenuto inoltre riesce ad essere talmente distillato, compresso, centrato, da scatenare a pieno la potenza dell’esperienza universale e l’idea autoriale.

“Sara perde – L’accesso alle finali nazionali” è un film fatto di nulla. Senza una storia, senza parole, senza montaggio, senza una messa in scena. Proprio il togliere tutto, il parcellizzare estremo, distoglie ogni distrazione o alibi allo sguardo, spogliando anche chi guarda. Non c’è da speculare o fare filosofia, ci sono però le nostre sconfitte, e tutte le sconfitte possibili. Il non verbale passa dal respiro allo sguardo fino alle montagne russe delle micro espressioni di Sara. Dispiacere, delusione, tristezza, e quell’esplosione di empatia finale liberatoria dell’allenatrice che rimette tutto in ordine. Sopravvivere per combattere un altro giorno. Sara perde ma il film vince: la vittoria della sconfitta.

La cornice in parte ci lascia un senso di vuoto, soprattutto tramite l’audio. Il rimbombo, l’eco, allargano lo spazio. Se nei momenti in cui passano le atlete il loro movimento ci orienta nell’aperta profondità del bianco pavimento, quando in campo restano Sara e l’allenatrice di colpo la solitudine esplode nel percepire quel pavimento come un muro, quindi di colpo l’immagine diviene piatta, la profondità sparisce, l’immagine in movimento sterza, si inverte da forza centrifuga a centripeta. Siamo così costantemente rimbalzati in un fuori-dentro costante fino alla liberazione finale. Lo svuotamento del campo e il planare del fuoco. Notevole come piccoli dettagli riescono a investire lo spettatore di senso, riflessioni, esperienze condivise e universali. Un film che dimostra come l’esigenza espressiva, e le idee, quando hanno urgenza si impongono con il minimo dei mezzi. 

 

“Sara Perde” è un film che abbiamo amato subito. Perché allora, purtroppo, l’opera di Silvia Poeta Paccati è così sconosciuta? Potrebbe venirci incontro la definizione “documentario sperimentale”, che è il genere nel quale il film rientra. A spaventare eventuali distributori e pubblico è sufficiente già solo la parola documentario, figuriamoci con “sperimentale” che cosa può succedere. Il cinema sperimentale è fortemente influenzato dall’arte contemporanea e abbraccia una vasta gamma di approcci creativi, dalle opere astratte e poetiche a quelle politiche e sociali, mirando a stimolare riflessioni e interpretazioni degli spettatori. Inoltre conserva un aspetto significativo: l’estraneità rispetto ai normali canali produttivi e distributivi, quindi di non sottomissione né alle regole della censura, né a quelle di mercato. Il risultato sono film quasi sempre sconosciuti ma liberi, unici. Croce e delizia. 

Certo, bisogna anche fare i conti col fatto che è già stato detto tutto, anche a livello internazionale. Bene o male si è arrivati al culmine delle potenzialità espressive del cinema. Ormai esiste la rielaborazione. Esiste il postmodernismo e la volontà di affrontare il presente attraverso il gesto critico e tecnico-teorico che proviene dal passato e che si evolve nel futuro. “Sara Perde” rientra perfettamente nel filone dei film consapevoli che sia già stato detto tutto, mirando all’emozione tramite l’ignoto (cosa si dicono Sara e l’allenatrice?) e scardinando le regole classiche del campo/controcampo. Poeta Paccati insiste su un campo a due nel quale Sara e l’allenatrice escono e rientrano dal centro dell’inquadratura, esaltando il movimento in background delle atlete, e dando vita ad una coreografia che sembra essere orchestrata da quanto è bella. Montaggio interno. Proprio come in un bellissimo cortometraggio di Ruben Ostlund, autore contemporaneo tra i più apprezzati, “Incident By a Bank” (2009), cronaca dettagliata di una rapina fallita, caratterizzato da un’unica ripresa in cui 90 persone eseguono un’attenta coreografia solo per la telecamera. In “Sara Perde” noi siamo con lei, anche se non sentiamo le sue parole, ci attacchiamo a quella sconfitta, la facciamo nostra. Empatizziamo. Non è pretenzioso, è sincero (Godard diceva che il cinema mente, lo sport no). In questo senso è il più mainstream degli sperimentalismi, e non è assolutamente una cosa negativa. Rattrista maggiormente proprio per questo, semmai: l’incapacità del pubblico di venire stimolato e di arrendersi al “piacere di essere scandalizzato” di pasoliniana memoria. Ma in questo caso a “scandalizzare” è il linguaggio, e non il contenuto. E che il formato corto si presti particolarmente alla sperimentazione, non è da discutere. Il problema è il solito: il pubblico, i critici, le riviste di settore discutono e incoraggiano questa forma di cinema?

Interessante potrebbe essere avvicinare timidamente il pubblico generalista (attraverso delle suggestioni) circa le possibilità di co-esistenza di un cinema che sovverte le regole di comunicazione imposte dal cinema americano ormai più di cent’anni fa e in grado di ampliare i  processi mentali di visione prestabiliti, affiancandolo ad opere espressivamente più canoniche, quadrate e aperte al grande pubblico. L’uno non esclude l’altro. E soprattutto far sì che quando si guardino opere come “Sara Perde” non si reagisca con indifferenza. Altrimenti è solo un cane che si morde la coda. Perché che il film sia poco visto non è un difetto dell’opera stessa o della regista, ma di tutto il resto. 

 

Autori (asincroni) Alessandro Giorgio e Michele Zaffarano

 

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